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I sea wine, in tempi non sospetti

Cantine subacquee, vini affinati in mare, vaghi sentori di salsedine, robusti ragazzotti con lunghe barbe che sfoggiano un dizionario meticcio italo-anglofono agitando calici a petto gonfio come nei migliori uffici di marketing meneghini… In realtà i vini del mare non sono propriamente una novità per la nostra amata bevanda a base di uva fermentata.

Ai tempi di Catone (II sec. a.C.) l’apprezzamento dei Romani nei confronti del vino greco era già evidente al punto da venire sitematicamente imitato. Ritrovamenti di anfore a Modena che era stata strappata ai celti del luogo, i Galli Boi, già nel III secolo a.C. mostrano che il vino era presente molto di frequente sulle tavole dei più abbienti, al punto che proprio come oggi, ne veniva fatta una stretta classificazione per qualità a seconda dei vitigni, delle lavorazioni e della provienienza. Un po’ come nelle nostre attuali enoteche.

Cosa c’enta questo con i sea wine? Beh, parrebbe che le tecniche enologiche non fossero propriamente avanzatissime all’epoca e in queste anfore sono stati ritrovati i resti di un vino che veniva corretto e conservato con acqua di mare e defrutum, una specie di mosto cotto parente della saba che usiamo oggi, a Modena, per l’aceto balsamico.

Il più grande esperto di vino nella storia dell’Antica Roma, l’archeologo André Tchernia (i cui libri non sono mai stati tradotti, parrebbe, per grande frustrazione del sottoscritto che deve approcciare la lingua francese con dizionario ed app) parla ampiamente nei suoi scritti di tecniche di conservazione del vino permutate dai popoli del mediterraneo orientale, dal quale i Romani dopo (ed etruschi e celti prima) acquistavano pregiati vini come quello di Kos (che non solo non è un’intercalare reggiano, ma è ancora prodotto con tanto di resine!) e quello di Rodi. Tra queste tecniche di correzione e sul come salvare i vini che cominciavano a presentare uno spunto acetico vi parlerò più avanti quando parleremo di posca, sguazzone, vin sottile e puntalone :-), ma basti pensare che erbe, miele, resine e spezie si sono aggiunti regolarmente fino al tardi ‘600 per correggere difetti del vino quando analoghi antichi degli attuali vermuth e della sangria erano all’ordine del giorno sulle nostre tavole.

Pare anche che nella zona di Modena, ai tempi Mutina, i vini più apprezzati furono proprio questi ultimi, di una tipologia che oggi chiameremo passiti, diluiti quindi in piccola percentuale con soluzioni saline che ai tempi si considerava avessero funzioni di conservazione come accade anche con formaggi e salumi. I Romani provavano mestamente ad imitarli in una concorrenza talvolta impari, un po’ come succede oggi nell’amichevole gara che da decenni corre tra noi e la Francia, provando tecniche di appassimento che arrivavano anche a quattro anni sotto il sole (di nuovo Catone). Anche Columella aveva codificato delle procedure per imitare il vino greco, che veniva lasciato affinare in anfore di terracotta un po’ come si fa oggi con le botti come la famosa barrique.

Sulla produzione del vino in tempi antichi e che si bevevano anche qui in Emilia-Romagna (come in tutto l’Impero Romano) ci sono ancora moltissime cose da dire, dalla pigiatura nelle calcatorie dal fondo in cocciopesto (detta in italiano: grandi vasche dal fondo fatto di cocci e detriti pressati), ma per oggi basta così. Vi lascio con una ricetta dal De Agri Coltura di Catone, il sea wine dei gastrofighetti del II sec. a.C.

Se si vuole fare il vino Coum, prendere l’acqua di mare dall’alto mare in una giornata tranquilla senza vento, 70 giorni prima del raccolto dell’uva, in modo che l’acqua dolce non arrivi (la pioggia potrebbe alterare la qualità dell’acqua marina). Una volta prelevata dall’oceano, versarla in una botte, non riempirla completamente ma lasciare uno spazio vuoto di cinque quarti. Mettere il coperchio ma fare in modo che ci sia passaggio d’aria. Trascorsi 30 giorni, travasare in un’altra botte in modo delicato, lasciando il deposito sul fondo. Dopo altri 20 giorni, travasare in un’altra botte, ripetendo l’operazione fino alla vendemmia. Per fare il vino Coum, lasciare l’uva sulla vite finché è ben passita e poi coglierla, quando è asciutta e lontano dalla pioggia, lasciandola poi all’aria aperta al sole per due o tre giorni, se non piove. Se piove, metterla sotto il tetto su graticci e rimuovere ogni chicco marcio. Quindi prendere 100 litri di acqua di mare per 50 kg di uva mista [“in dolium quinquagenarium infundito aquae marinae Q. X.”]. Togliere i grappoli dalle uve e versare il mosto nella dolia, continuando fino a riempirla completamente. Premere l’uva a mano affinché assorba l’acqua di mare. Chiudere la botte con il coperchio forato e lasciarla in un luogo fresco e asciutto per tre giorni. Dopo tre giorni, togliere il contenuto della botte, pigiarlo nel torchio e versare il vino in botti pulite e asciutte.

Catone, De Agri Coltura

Mick

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