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Uva Malvasia Casalini

da le vecchie varietà di vite

Le fonti storiche riportano di diverse Malvasie (di Candia, odorosissima, di Maiatico, ecc.) coltivate soprattutto in Emilia ed in particolare nel Parmense. L’accessione di Malvasia aromatica di Parma, reperita presso Angelo Casalini di Basilicagoiano di Montechiarugolo (PR), è stata indicata da diverse persone come la vera Malvasia di Maiatico, che dava un vino più fine e profumato di quello che si ottiene oggi. Questa fonte ha permesso di ricostruire il pedigree di diversi vitigni, confermando l’antichità della varietà e la sua importanza nel panorama viticolo regionale, e non solo. Infatti si è individuato in Moscato bianco uno dei genitori di Malvasia Casalini (ex Malvasia aromatica di Parma), che a sua volta avrebbe dato origine a Malvasia di Candia aromatica (Raimondi et al., 2020; D’Onofrio et al., 2021). Il profilo molecolare della Malvasia Casalini è riportato alla tabella profili genetici.
Sinonimi accertati: Malvasia di Maiatico, Malvasia odorosissima, Malvasia aromatica di Parma
Sinonimie errate: Denominazioni dialettali locali: Malvatich (Parma)
Rischio di erosione: molto elevato

Con nomi differenti, Malvasia Casalini era diffusa tra Parma, Piacenza e Reggio Emilia (Malvasia odorosissima), ma la scarsità e l’incostanza della produzione la relegarono in secondo piano rispetto a Malvasia di Candia aromatica, alla quale è comunque legata da una relazione di parentela di primo
grado (genitore/figlio). A fine 2021 Malvasia Casalini risultava coltivata su quasi un ettaro di superficie.

Nel passato i vini di Malvasia venivano per lo più importati dalla Grecia e
hanno goduto di una gran fama in Italia, e non solo, tra il XIV e il XVII
secolo. Visto il gradimento, probabilmente è iniziata anche su suolo italiano
la coltivazione delle viti che davano questo vino. La Malvasia del passato
doveva essere sicuramente aromatica se nel Trattato del Soderini, pubblicato
nel 1600, si legge: “e tanto fanno le viti che fan la Malvagia, delli quali vini
un boccal solo condisce una botte di sei barili di vin bianco di quei paesi e lo fa
esser tutto malvagia”, e da sola “fa un vino potentissimo, e questa vite ne fa poco
nel suo paese di Candia e Cipri, e meno assai produce trasportata negli altrui, e
si diletta d’andar terragnola” (Marescalchi e Dalmasso, 1937).
Per quanto riguarda la viticoltura Piacentina e Parmense, la Malvasia è sicuramente
uno dei vitigni bianchi caratterizzanti, anche se in tutta l’Emilia-
Romagna sono da tempo presenti diverse Malvasie, più o meno produt-

tive e più o meno “profumate”. Nell’Ottocento, nel Parmense, la Malvasia doveva essere piuttosto coltivata e dava
origine a vini di un certo pregio, come si evince da alcune attestazioni ricevute dai partecipanti all’“Esposizione
provinciale d’industrie e d’agricoltura tenuta in Parma dal dì 17 settembre al 20 ottobre 1870” (AA.VV., 1871). Ma di
che Malvasia si trattava? Sicuramente a partire dal Secondo dopoguerra, i tecnici iniziarono a consigliare Malvasia
di Candia aromatica (Capucci, 1952), ma testimonianze reperite sul territorio riferiscono di una Malvasia più profumata
e meno produttiva di quella che viene oggi normalmente impiegata. Purtroppo la letteratura non aiuta a
dirimere la questione, poiché viene più spesso usato un generico “Malvasia”, solo raramente aggettivato o seguito da
indicazioni dell’area di produzione (Samoggia, 1927; Toni, 1927). Valutazioni sperimentali sull’accessione Casalini
(un piccolo filare del 1965, messo a dimora dal padre di Angelo a partire da una vite secolare presente nel podere)
hanno permesso di apprezzare, sia sulle uve che sul vino, un’aromaticità più intensa e più fine rispetto a Malvasia di
Candia aromatica, che richiamava il Moscato (Simone Vasile et al., 2018). Marescalchi e Dalmasso (1937) concordano
sul fatto che la Malvasia del passato fosse un vitigno aromatico e richiamano l’Acerbi che aveva parlato di una
Malvasia Moscado, “che potrebbe essere la Malvasia musquée dei Francesi”, aggiungendo che una Malvasia moscata si
coltivava “sull’Appennino piacentino (e un po’ qua e là anche in Piemonte) sotto il nome di Malvasia di Candia”. Nel
“Contributo all’ampelografia modenese” del Malavasi è indicata una Malvasia moscata, importata dal Reggiano, ma
la descrizione e le considerazioni finali dell’Autore portano a concludere che si trattasse della Malvasia di Candia,
piuttosto diffusa nell’Ottocento in tutta l’Italia (Malavasi, 1879). Nella ricerca delle malvasie a sapore moscato ci
viene incontro anche l’Ampelografia del Rovasenda, che cita una “Malvasia di Alessandria (Piem.)” e una Malvasia
aspra che rimanda a Malvasia odorosissima, sinonimo di Malvasia di Scandiano o di Villa Lunga, descritta dall’Aggazzotti
(Rovasenda, 1877). Visto il rimando a Malvasia bianca di Piemonte, si ricorda il lavoro ampelografico del
Marzotto (1925) che compendia varie informazioni (Ampelografia della Provincia di Alessandria, 1875; Pulliat,
1869), talora discordanti, senza però far emergere nulla in merito alla sessualità del fiore. Un rapido confronto tra
la Malvasia bianca del Piemonte descritta da Schneider e Mannini (2006) e l’accessione di Casalini non lascia dubbi
sulla diversità dei due vitigni, che pure hanno in comune foglie caratterizzate da pochissimo tomento e il sapore
moscato. La totale assenza di pigmento sulle nervature della foglia di Malvasia Casalini tenderebbe ad escludere
anche la sinonimia con Malvasia di Piacenza. Sicuramente interessante è la lettura delle varie voci riferibili a Malvasia
del Vocabolario Parmigiano-Italiano del Malaspina (1859): “Malvasìa. s.f. Malvasia, Malvagia, Grechetto. Uva
bianca di cui si fa un delicato vino che ritiene lo stesso nome”, “Malvatich. s.m. Vino di Malvasìa od anche Malvasìa
solamente” e Frontignán. Malvasia di Candía. Nome di una sorta di vino squisito e di un vitigno non molto comune
tra noi”. Questo quadro potrebbe far pensare che, nell’Ottocento, nel parmense venissero distinte, indicandole
con nomi diversi, almeno due differenti Malvasie, di cui la Candia era la meno diffusa. Analizzando a fondo la descrizione
della Malvasia odorosissima di Aggazzotti (1867), poi, si può ragionevolmente ipotizzare che la Malvasia
più diffusa nel Parmense fosse proprio questa, nota anche con i nomi di Malvasia di Villa Lunga, Malvasia aspra o
Malvasia di Scandiano (Aggazzotti, 1867; Rovasenda 1877). Negli anni ’80 del Novecento, Silvestroni e colleghi
(1986) reperirono sul territorio parmense una Malvasia profumata, che ritennero poter essere la Malvasia odorosissima,
ma recenti verifiche genetiche hanno dimostrato che, in realtà, di trattava di un’accessione di Malvasia di
Candia aromatica (Pastore et al., 2020).

Caratteristiche del vitigno
Foglia. Grande, cuneiforme, pentalobata. Seno peziolare a V, aperto. Seni laterali superiori generalmente
ad U, con lobi sovrapposti. Pagina superiore con bollosità tendenzialmente media
e nervature non pigmentate. Pagina inferiore praticamente glabra. Denti a margini rettilinei
misti ad altri con margini convessi. Picciolo molto più corto della nervatura mediana.
Grappolo. Di grandezza medio-piccola, conico, mediamente spargolo o spargolo, con 1 o 2 ali.
Acino sferoidale, con buccia di colore verde-giallo, piuttosto pruinosa, e polpa molle a sapore
moscato.
Caratteri agronomici ed enologici. Vitigno di buona vigoria, presenta fiore femminile, quindi può andare incontro a
fenomeni di mancata impollinazione, specie nelle primavere piovose. La produzione è pertanto tendenzialmente non
elevata e incostante. Inizia a germogliare a fine marzo-inizio aprile, fiorisce intorno all’ultima decade di maggio, invaia
all’ultima decade di luglio e matura intorno al 20 agosto. Mostra una certa sensibilità a oidio.
In passato era usata anche come uva da serbo, ma l’impiego principale era ed è sicuramente quello per la trasformazione
in vino. Se ne ricava un prodotto con una prevalenza di note fiorali (acacia, biancospino, fiori d’arancio, rosa, tiglio),
alle quali si accompagna un fruttato altrettanto importante (drupacee, uva Moscato). A completare il quadro, una più
discreta componente vegetale-aromatica, appena speziata.

Questa situazione, molto probabilmente, fece sì che la Vitis vinifera ssp. sylvestris, dioica, endemica nel
continente europeo e ancora oggi presente nelle pinete di Ravenna, si sia potuta incrociare con le varietà
domestiche introdotte, originando una prole ermafrodita meglio adattata al clima freddo e umido della
Pianura Padana. Questa ipotesi potrebbe dare ragione del difetto fiorale di numerose varietà locali dell’Emilia-
Romagna, che in tempi recenti sono state abbandonate a causa della forte acinellatura e conseguente
scarsa produttività: Lanzesa, Alionza, Trebbiano di Spagna, Malvasia odorosissima e altre ancora.

Scheda Repertorio Regionale RER V 047

CENNI STORICI, ORIGINE, DIFFUSIONE
Nel passato i vini di Malvasia venivano per lo più importati dalla Grecia e hanno goduto di un gran fama in
Italia, e non solo, tra il XIV e il XVII secolo. Visto il gradimento, probabilmente è iniziata anche su suolo
italiano la coltivazione delle viti che davano questo vino.
La Malvasia del passato doveva essere sicuramente aromatica se nel Trattato del Soderini, pubblicato nel 1600,
si legge: “e tanto fanno le viti che fan la Malvagia, delli quali vini un boccal solo condisce una botte di sei
barili di vin bianco di quei paesi e lo fa esser tutto malvagia”, e da sola “fa un vino potentissimo, e questa vite
ne fa poco nel suo paese di Candia e Cipri, e meno assai produce trasportata negli altrui, e si diletta d’andar
terragnola” (Marescalchi e Dalmasso, 1937). Soderini ci riporta un esempio di frode alimentare del tempo e ci
svela un particolare interessante sul vitigno a lui noto come Malvasia: la scarsa produttività che si rifletteva
nella elevata gradazione alcolica.
Per quanto riguarda la viticoltura Piacentina e Parmense, la Malvasia è sicuramente uno dei vitigni bianchi
caratterizzanti, anche se in tutta l’Emilia-Romagna sono da tempo presenti diverse Malvasie, più o meno
produttive e più o meno “profumate”.
Nell’Ottocento, nel Parmense, la Malvasia doveva essere piuttosto coltivata e dava origine a vini di un certo
pregio, come si evince da alcune attestazioni ricevute dai partecipanti all’“Esposizione provinciale d’industrie e
d’agricoltura tenuta in Parma dal dì 17 settembre al 20 ottobre 1870”. In quell’occasione la marchesa Araldi-
Trecchi di Maiatico vinse una medaglia d’argento per “l’ottima qualità di tutti i vini presentati e più
specialmente del malvatico 1869”. Il signor Domenico Dall’Aglio, d’Alberi, Comune di Vigatto, ricevette una
“Menzione onorevole – per molto merito riconosciuto nel rosso amaro del 1869 e nel malvatico bianco”. Non
si dimentichi poi il signor Passeri Alessandro di Parma che presentò un “vino bianco malvasia” del 1836: non
ricevette premi, ma denota che la Malvasia veniva impiegata per vini di pregio, probabilmente passiti, destinati
anche ad un lungo invecchiamento (AA.VV., 1871).
Ma di che Malvasia si trattava? Sicuramente a partire dal Secondo Dopoguerra, i tecnici iniziarono a
consigliare Malvasia di Candia: “Zone collinari – Le varietà maggiormente diffuse e che ancor oggi possono
convenientemente essere consigliate nella ricostituzione dei nuovi impianti su piede americano sono … Da
vino a frutto bianco: il Moscato fior d’arancio, la Malvasia di Candia, il Trebbiano…” (Capucci, 1952), ma
testimonianze reperite sul territorio riferiscono di una Malvasia più profumata e meno produttiva di quella che
viene oggi normalmente impiegata (la Candia aromatica, appunto).
Purtroppo la letteratura non ci aiuta, poiché in genere viene citato un generico “Malvasia”, solo raramente
aggettivato o seguito da indicazioni dell’area di produzione. È il caso della “Malvasia di Maiatico”, un vino che
godeva di una certa fama nel periodo fascista: “Nella pianura alta e in collina si ottengono prodotti più
ricercati e fini perché più alcolici e quindi più serbevoli. …certe piccole partite di vini provenienti da uve
prodotte in vigne bene esposte e curate, vengono vendute a 500 lire l’ettolitro (Sauvignon, Malvasia di
Maiatico, ecc.)” (Samoggia, 1927)
Quando si tratta, però, di capire che vitigno veniva impiegato per fare questo vino, una rivista del periodo,
“L’Italia agricola”, non ci aiuta molto: “La coltura della vite abbastanza importante e ben fatta nella zona
collinare, dove si hanno prodotti di particolare pregio, riveste scarsa importanza al piano per i prodotti

mediocri che si ottengono. Tra i vitigni migliori e più diffusi al colle notiamo la malvasia, ottima sotto tutti i
rapporti e assai rinomata specialmente nei territori di Sala Baganza, Maiatico e dintorni” (Toni, 1927).
Sta di fatto che l’accessione di Malvasia aromatica di Parma, reperita presso il signor Angelo Casalini di
Basilicagoiano di Montechiarugolo (PR), è stata indicata da diverse persone come la vera Malvasia di Maiatico,
che dava un vino più fine e profumato di quello che si ottiene ad oggi.
Il motivo per cui questa varietà è stata abbandonata nel corso della ristrutturazione viticola post-bellica è molto
probabilmente da imputare alla scarsa produzione, specie in certe annate, a causa di un difetto fiorale.
Valutazioni sperimentali sull’accessione Casalini (un piccolo filare del 1965, messo a dimora dal padre di
Angelo a partire da una vite secolare presente nel podere) hanno permesso di apprezzare, sia sulle uve che sul
vino, un’aromaticità più intensa e più fine rispetto a Malvasia di Candia aromatica, che richiamava il moscato
più che una malvasia. Queste osservazioni hanno concentrato l’attenzione sulle malvasie più “profumate” e più
“glabre” (le foglie sono praticamente senza peli) citate nei diversi lavori ampelografici del passato.
Marescalchi e Dalmasso concordano sul fatto che la Malvasia del passato fosse un vitigno aromatico e
richiamano l’Acerbi che aveva parlato di una “«Malvasia Moscado, della quale si dice che sia fatto il vino di
Madera… ed il Moscado di Candia, e di varie isole dell’arcipelago, che ci viene da Venezia, e per ciò da noi
conosciuto sotto nome di Moscado di Venezia». Aggiunge che potrebbe essere la Malvasia musquée dei
Francesi. E noi aggiungiamo che una Malvasia moscata si coltiva sull’Appennino piacentino (e un po’ qua e là
anche in Piemonte) sotto il nome di Malvasia di Candia” (Marescalchi e Dalmasso, 1937).
Nel contributo all’ampelografia modenese del Malavasi si trova una Malvasia moscata, ma la descrizione e le
considerazioni finali dell’Autore portano a concludere che si trattasse della Malvasia di Candia, piuttosto
diffusa nell’Ottocento in tutta l’Italia: “Importato recentemente dalla Provincia Reggiana, questo vitigno non è
frequente. È ferace, matura in settembre, e somministra uva eccellente per vino. Secondo le molte descrizioni
che leggonsi nel Bullettino Ampelografico, sembra lo stesso che la Malvasia delle Marche, degli Abruzzi e di
altre regioni d’Italia (Malavasi, 1879).
Nella ricerca delle malvasie a sapore moscato ci viene incontro anche l’Ampelografia del Di Rovasenda, in cui
viene citata una “Malvasia di Alessandria (Piem.) B. (87, 83), id. a quella d’Asti. Frutto profumato a sapor di
moscato, ma più amarognolo. La foglia rassomiglia quella del Moscato, più glabra, più acutodentata”. Tra le
numerosissime malvasie, poi, balza agli occhi una Malvasia aspra che rimanda a Malvasia odorosissima,
sinonimo di Malvasia di Scandiano o di Villa Lunga, descritta dall’Aggazzotti (Di Rovasenda, 1877).
Visto il rimando alla Malvasia bianca di Piemonte, si è letto il lavoro ampelografico del Marzotto in cui
vengono compendiate varie informazioni in merito, anche di epoca precedente (Ampelografia della Provincia
di Alessandria, 1875 e lavoro del Pulliat, 1869), da cui non emerge nulla in merito alla sessualità del fiore e ci
sono descrizioni discordanti tra i vari Autori. C’è, però, un passo interessante in merito ad una malvasia
piacentina: “A Piacenza si coltiva una Malvasia molto diffusa e accreditata in detta provincia, ma con gli acini
piccoli e costantemente sferici, con buccia coriacea e polpa carnosa, croccante; le nervature sono rosseggianti
al punto d’inserzione col picciuolo. Deve trattarsi adunque di una Malvasia diversa dalla Malvasia del
Piemonte, e probabilmente uguale a quella della Toscana” (Marzotto, 1925).
L’unica cosa chiara che emerge dal Marzotto è che c’era una gran commistione di vitigni sotto la
denominazione comune di Malvasia; d’altra parte un rapido confronto tra la Malvasia bianca del Piemonte
descritta da Schneider (Schneider e Mannini, 2006) e l’accessione Casalini della Malvasia di Parma non lascia
dubbi sulla diversità dei due vitigni, che pure hanno in comune foglie per certi aspetti simili e pochissimo
tomentose e il sapore moscato. La totale assenza di pigmento sulle nervature della foglia di Malvasia di Parma
Casalini tenderebbe ad escludere anche la sinonimia con la Malvasia di Piacenza.
Sicuramente interessante è la lettura delle varie voci riferibili alla Malvasia sul Vocabolario Parmigiano-
Italiano del Malaspina: “Malvasìa. s.f. Malvasia, Malvagia, Grechetto. Uva bianca di cui si fa un delicato vino
che ritiene lo stesso nome”. “Malvatich. s.m. Vino di Malvasìa od anche Malvasìa solamente”. Troviamo poi
un’altra voce dialettale che indica come corrispondente italiano la Malvasia di Candia: “Frontignán. Malvasia
di Candía. Nome di una sorta di vino squisito e di un vitigno non molto comune tra noi” (Malaspina, 1859).
Questo potrebbe far pensare che, nell’Ottocento, nel parmense venissero distinte, indicandole con nomi diversi,
almeno due differenti Malvasie, di cui la Candia era la meno diffusa.
Analizzando a fondo la descrizione della Malvasia odorosissima di Aggazzotti (1867), si può ragionevolmente
ipotizzare che la Malvasia più diffusa nel Parmense fosse proprio questa. Nota anche con i nomi di Malvasia di
Villa Lunga, Malvasia aspra o Malvasia di Scandiano, ricorda molto da vicino l’accessione Casalini: “… Sugo
scarso, di media densità, dolce melato, esalante il più pronunziato odore di malvasia che si conosca. Uva che
ha il suo merito speciale pei vini da liquore o da dessert, qualora non si badi molto al tannino: come
d’ordinario è pei vini bianchi di Scandiano, il suo aroma è molto deciso e persistente anche dopo dozzine

d’anni. Però quando si desideri vino veramente delicato, non consiglierei mai la di lei abbondanza nella
composizione delle uve destinate a fornire l’aroma, né vorrebbe mai impiegata se non dopo avergli fatto
disseccare affatto il graspo. Non ha il difetto di alcuni moscati e di altre malvasie, di rendere cioè malagevole
la chiarificazione del vino di cui fecero parte; ma d’altra parte se non era ben matura, e senza l’avvertenza
della completa disseccazione del graspo, spesso conferisce troppa asciuttezza in immediato confine coll’aspro;
difetto imperdonabile in un vino di liquore o da mattina”.
Quello che viene evidenziato in questa malvasia è la particolare intensità aromatica, la ricchezza in zuccheri e
la scarsa resa in mosto, caratteristiche che in effetti si ritrovano anche nella Malvasia aromatica di Parma.
Di Rovasenda (1877) ci conferma quanto riportato dall’Aggazzotti, indicando “Malvasia odorosissima” come
sinonimo di “Malvasia di Scandiano” e alla voce “Malvasia aspra” rimanda a “Malvasia odorosissima”.
Durante la ricognizione dei vitigni minori dell’Emilia-Romagna, Silvestroni e coll. (1986) reperirono sul
territorio parmense una Malvasia profumata, che ritennero poter essere la Malvasia odorosissima citata dal
conte Di Rovasenda, ma recenti verifiche genetiche hanno dimostrato che, in realtà, di trattava di una
accessione di Malvasia di Candia aromatica.
ZONA TIPICA DI PRODUZIONE
Parmense
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
AA.VV. (1871) – Esposizione provinciale d’industrie e d’agricoltura tenuta in Parma dal dì 17 settembre al 20
ottobre 1870, relazione e catalogo ufficiale dell’esposizione pubblicati per cura della commissione dirigente.
Dalla Tipografia di Paolo Grazioli, Parma.
Aggazzotti F. (1867) – Catalogo descrittivo delle principali varietà di uve coltivate presso il cav. Avv.
Francesco Aggazzotti del Colombaro. Tipografia Carlo Vincenzi, Modena.
Capucci C. (1952) – I problemi della ricostruzione del patrimonio viticolo emiliano. In: “Rassegna economica”
Camera di Commercio Industria Agricoltura di Reggio Emilia. Anno VII – N. 1-2-3. z
Di Rovasenda G. (1877) – Saggio di una ampelografia universale. Tipografia Subalpina, Torino.
Malaspina C. (1859) – Vocabolario parmigiano-italiano accresciuto di più che cinquanta mila voci. Tipografia
Carmignani, Parma.
Malavasi L. (1879) – Contributo all’ampelografia modenese. Tipografia di Cesare Olivari, Modena.
Marescalchi A., Dalmasso G. (1937) – Storia della vite e del vino in Italia. Presso arti grafiche Enrico
Gualdoni, Milano.
Samoggia C. (1927) – Dall’uva al vino. In: “La provincia di Parma nella sua agricoltura e nelle battaglie del
lavoro”. Confederazione Naz. Fascista degli Agricoltori. Officina grafica Fresching, Parma.
Silvestroni O., Marangoni B., Faccioli F. (1986) – Identificazione e conservazione dei vitigni locali (Vitis
vinifera L.) in Emilia Romagna. ATTI 4. Simp. Intern. Genetica della Vite. Vignevini n. 12, supplemento.
Spaggiari P.L. (1964) – Insegnamenti di agricoltura parmigiana del XVIII secolo. Artegrafica Silva, Parma.
Toni G. (1927) – Agricoltura emiliana. Viticoltura ed enologia. L’Italia agricola n. 4.

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